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Cnr: il biochar può essere l'alba di una nuova agricoltura in Italia

di Marco Magrini

2009-03-13

Ingegneria Impianti Industriali

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2009-03-13

Cnr: il biochar può essere l'alba di una nuova agricoltura in Italia

di Marco Magrini

12 marzo 2009

Il biochar potrebbe essere l'arma di una nuova agricoltura. Il grimaldello per sbloccare un ciclo virtuoso nei delicati equilibri del carbonio. "Fino a un secolo fa – racconta Franco Miglietta, ricercatore dell'istituto di Biometeorologia del Cnr, a Firenze, meglio noto come Ibimet – i suoli agrari italiani contenevano 130 tonnellate di carbonio per ettaro, oggi quasi la metà. Aggiungendo 700 chili di biochar all'anno, si potrebbe aumentare la loro fertilità e immagazzinare lì per secoli l'anidride carbonica che le piante hanno preso dall'atmosfera per crescere".

Miglietta ha fatto i conti. Se per ipotesi questa soluzione venisse adottata da tutta l'agricoltura italiana, il Paese toglierebbe dall'atmosfera 45 milioni di tonnellate di CO2 all'anno. "Più di quanto ci chieda il Protocollo di Kyoto", dice soddisfatto. E il bello è che, quei 700 chili di carbone vegetale, potrebbero venire dalla pirolisi di due tonnellate di potature d'olivo che si producono solitamente per ogni ettaro. Un vero circolo virtuoso.

A gennaio, l'Ibimet ha seminato qui a Pistoia, presso il Centro Sperimentale per il Vivaismo, del grano duro con e senza biochar. La primavera non è ancora cominciata e non si possono ancora vedere effetti sorprendenti, ma le zone fertilizzate con il carbone sono già più rigogliose. "Anche perché il terreno è più scuro e trattiene di più i raggi solari", precisa Miglietta con rigore. Fatto sta, che altri esperimenti del Cnr e di numerose istituzioni accademiche internazionali, si sono già conclusi con successo. E il Protocollo di Copenhagen che sarà firmato a dicembre – per prendere il posto di Kyoto dal 2013 – potrebbe includere il biochar nel computo delle emissioni globali e della distribuzione dei certificati di carbonio, trasformandolo così in una risorsa economica.

Non a caso, l'industria agroalimentare sta già drizzando le antenne. L'istituto di Firenze ha presentato i primi risultati sul biochar ai soci di Sigrad, un consorzio di filiera del frumento duro, a cui partecipano grandi realtà industriali come Barilla. Entro breve, potrebbero partire i primi esperimenti per trasformare gli scarti industriali – che finora erano un costo – in risorsa energetica, in fertilizzante e in arma a difesa dell'ambiente (un giorno potenzialmente monetizzabile).

Con l'aiuto di Miglietta, abbiamo provato a immaginare una soluzione, fra le tante possibili. "Da qualche anno, in molte regioni italiane – osserva il ricercatore del Cnr – è proibito bruciare le potature e gli altri scarti agricoli", anche se la legge è largamente disattesa. Bene, prendiamo un qualsiasi Comune. Potrebbe dotarsi di un pirolizzatore, diciamo da un megawatt, comprare due camion e dare lavoro a sei persone. Su appuntamento telefonico, le potature vengono ritirate a domicilio e trasformate in biochar. Il Comune usa il calore per riscaldare edifici, o per generare corrente da vendere alla rete elettrica. Poi riporta il biochar all'agricoltore che lo stende sul campo e risparmia sui fertilizzanti. Dopodiché, il Comune magari incasserà anche dei certificati di carbonio da rivendere sul mercato delle emissioni.

"Il punto debole – ammette Miglietta – potrebbe essere l'ultimo anello della catena: distribuire in un campo una tonnellata di biochar è più costoto e complicato di cento chili di fertilizzante". Ma la somma di benefici per la comunità - anche quella planetaria - è evidente.

La strategia del biochar da sola non basta, né a risolvere il problema energetico, né quello climatico. Ma, se applicata su scala mondiale, potrebbe portare un contributo significativo. Da un paio d'anni, sta fiorendo la letteratura scientifica sul geo-engineering, ovvero le misure su grande scale per controbilanciare lo squilibrio climatico: dagli ombrelli solari in orbita, alla fertilizzazione degli oceani con il ferro. "Fra tutte le soluzioni, tenendo conto della loro efficacia e dei rischi che comportano – risponde Tim Lenton, climatologo della University of East Anglia, che ha appena scritto un paper sul tema – il biochar è la soluzione migliore. E la più ragionevole". Anche su scala locale.

Questa tecnologia origina dalle civiltà precolombiane, ma qui siamo solo agli inizi. I pirolizzatori da uno o più megawatt arriveranno sul mercato solo l'anno prossimo. Miglietta, insieme a un gruppo di volenterosi, ha creato l'Associazione Italiana Biochar, che dovrà promuovere l'idea presso l'industria, le aziende agricole e il mondo della ricerca. Sono solo gli inizi. Ma potrebbe essere l'alba di una nuova agricoltura. Più "bio" che mai.

12 marzo 2009

 

LuciaStove, nasce a Tortona la soluzione per portare energia e biochar nei villaggi

di Marco Magrini

12 marzo 2009

La vita di Nathaniel Mulcahy è cambiata il 29 ottobre 2004. Nato in Georgia da padre americano e da madre italiana, era venuto in Piemonte tre anni prima per questioni familiari, salvo innamorarsi di Tortona e trovare un lavoro da direttore della ricerca in un'azienda piemontese di elettronica. In qualità di inventore, aveva già disegnato Venus (un rasoio Gillette), Speed Stick (un deodorante Mennen) e anche una sedia a rotelle capace di anticipare gli attacchi di epilessia e di contrastarli (non prodotta da nessuno). Fatto sta, che quel 29 ottobre cade dalle scale e si rompe letteralmente l'osso del collo.

I soccorsi arrivano quasi cinque ore dopo e lo trovano ancora vivo, solo perché la sua cagnetta aveva usato il muso per tenergli la testa sollevata, e il corpo e le zampe per reggergli la schiena. "Senza di lei sarei morto", racconta Mulcahy, oggi 44enne. "Da quel giorno, ho deciso che non volevo più lavorare per far ricca un azienda, ma per migliorare il mondo. A tempo pieno".

È così che, mentre lavorava su un progetto per migliorare la vita degli haitiani, ha inventato la LuciaStove, oggi un marchio registrato. Con cinque pezzi di alluminio, anche in Africa possono costruirsi un fornello pirolitico – capace di combustione senza ossigeno – che si alimenta con foglie, rami o scarti agricoli, che produce pochissimo monossido di carbonio (una delle principali cause di morte, nelle cucine del terzo mondo) e che lascia il solo residuo del biochar, il carbone vegetale: un potente fertilizzante, da reinserire nel più virtuoso dei cicli agroalimentari.

Sul mercato, ci sono già una ventina di aziende che producono pirolizzatori di varie dimensioni e presto se ne aggiungeranno altre: l'ungherese 3R Agrocarbon e la tedesca Pyrex, promettono nuovi impianti per l'anno prossimo. Ma la LuciaStove è diversa. "La sua particolarità – spiega Mulcahy con irrefrenabile entusiasmo – è che sfrutta attentamente la dinamica dei fluidi per ottenere una combustione con un efficienza del 93%, contro il 7-12% di un fuoco aperto". E il procedimento è replicabile su larga scala.

Tutti i pirolizzatori del mondo sono chiusi, per tenere fuori l'ossigeno. Invece, la LuciaStove è miracolosamente aperta in alto: basta gettarci dentro della biomassa, accenderla e, dopo pochi secondi, il calore prodotto innesca la pirolizzazione, aiutata da un piccolo ventilatore laterale. Dagli ugelli in alto – disegnati in modo da sfruttare tre diversi vortici che si creano all'interno – esce un gas sintetico, fatto di idrogeno, metano e monossido di carbonio. Il quale, bruciando forma una specie di cappa che consuma l'ossigeno impedendogli di entrare, ma al tempo stesso esercita un "tiraggio" verso il basso che fa entrare l'azoto.

"Tre etti di biomassa – spiega Mulcahy – bruciano per quasi un'ora e mezzo, regalando energia termica e, alla fine, lasciando come residuo un etto di biochar. Il quale, è un eccellente fertilizzante ed è capace di stoccare per secoli l'anidride carbonica che era nelle piante".

La WorldStove, l'azienda fondata da Mulcahy per commercializzare la sua invenzione, sta già discutendo con "importanti aziende italiane dell'agroalimentare" (che lui non vuole ancora nominare) per adottare il procedimento su scala industriale. "Ci sono aziende che spendono fino a 30 euro a tonnellata, per smaltire i propri scarti. In questo modo, avrebbero energia gratis per i propri bisogni produttivi (o per venderla alla rete sotto forma di elettricità), e anche un fertilizzante naturale da reimmettere nel ciclo", con un conseguente, minor uso dei fertilizzanti chimici.

Ma la commercializzazione? Non doveva salvare il mondo? "La WorldStove vende già questa tecnologia in Canada sotto forma di caminetti ecologici, visto che lì la combustione della legna è stata vietata. E abbiamo ricevuto una commessa per produrre 1,4 milioni di fornelli per ammodernare tutte le saune della Finlandia", dice Mulcahy con un sorrisetto malizioso. "Tutti fondi che servono per finanziare la distribuzione della LuciaStove nel Terzo Mondo a prezzi bassissimi, sottocosto, con la formula del microcredito". Migliaia di esemplari sono già stati spediti in Uganda, Indonesia, Zaire, Cameroon, Malesia, Mongolia e Costa d'Avorio.

Un intoppo c'è: il ventilatore che affianca la LuciaStove, richiede corrente. "Ma lo abbiamo già risolto con tre diverse soluzioni – risponde Mulcahy – una delle quali sfrutta la gassificazione coassiale del fornello, autogenerando l'elettricità per la ventola. Anzi, anche di più: ci si può ricaricare il cellulare".

Di fatto, per efficienza, facilità d'uso e per i benefici ambientali che comporta, la LuciaStove è un'invenzione che potrebbe far parlare di sé. È frutto dell'intuizione di un momento? "La mia cagnetta, stava ormai molto male", racconta Mulcahy. "Un giorno, mi ha appoggiato teneramente il muso sulle gambe. Mi sono messo a pensare e ho avuto il mio momento eureka. Poi, quando ho finito di mettere su carta le mie idee, lei se n'è andata".

Come avrete intuito, si chiamava Lucia.

12 marzo 2009

CORRIERE della SERA

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